Dopo un giorno di permanenza l'eroico guerriero decise di perlustrare l'intera isola conosciuta soprattutto per i suoi abitanti: i ciclopi, giganti con un occhio solo al centro della fronte.
Giunto di fronte alla grotta più grande dell'isola, spinto dalla curiosità, si addentrò insieme ai suoi compagni e vennero tutti fatti prigionieri dal più temuto e feroce dei ciclopi: Polifemo, figlio della ninfa Toosa e di Poseidone (dai latini chiamato Nettuno), fratello di Zeus (Giove), re dell’Olimpo.
Polifemo li imprigionò bloccandoli all'interno della grotta posizionando un grande masso all'ingresso per impedirne la fuga. Quando aveva fame prendeva due uomini a caso e li mangiava in un sol boccone.
Ulisse, a quel punto, architettò il piano per la fuga con grande astuzia.
Prima recuperò all'interno della grotta un ramo di ulivo e lo trasformò in una lancia ben affilata. La sera, quando il gigante fece ritorno nella grotta dopo il pascolo, gli offrì del buon vino con l'intento di farlo ubriacare.
Colpito dal gesto generoso Polifemo chiese ad Ulisse come si chiamasse e gli promise di mangiarlo per ultimo.
L'eroe, anche in questo caso, rispose con prontezza ed astuzia: "Il mio nome è Nessuno".
Dopo la gran bevuta il gigante si appisolò ed Ulisse, insieme ai suoi compagni, lo accecarono con la lancia rovente infilzandola al centro dell'occhio.
Sopraffatto dal dolore, e non potendo più vedere, Polifemo cominciò ad urlare e chiamare in suo soccorso gli altri fratelli ciclopi: "Aiutooo! Nessuno mi ha ferito! Nessuno mi ha ferito!!".
Gli altri fratelli accorsero all'ingresso della grotta ma sentendo che "nessuno" lo aveva ferito ed immaginando fosse solo ubriaco, risero, si voltarono ed andarono via.
All'indomani quando Polifemo, come ogni mattina, aprì la grotta spostando il gran sasso per far uscire le pecore Ulisse mise in atto la seconda fase del suo piano. Ognuno di loro si aggrappò al ventre delle pecore e sfilarono davanti al gigante senza farsi notare. Una volta fuori dalla grotta corsero verso la nave attraccata a riva e tentarono di prendere il largo.
Il gigante non riuscendo a vedere bene si innervosì e, quando si accorse della fuga, corse sul promontorio cercando di affondare la nave con il lancio di grandi massi insieme ad uno dei suoi fratelli (Bronte) accorso in suo aiuto.
Quando Ulisse giunse nei pressi di Taormina i ciclopi, infuriati, nel tentativo di affondare la nave, afferrarono alcune cime delle colline a loro vicine e le scagliarono in direzione della voce del re di Itaca. Ma anche questi tentativi fallirono. Ed Ulisse riuscì a prendere il largo.
Ma è proprio in questo momento che il re di Itaca commise il grande errore che attirò la maledizione del ciclope Polifemo. Infatti quando oramai si sentita "salvo" urlò e svelò al gigante il suo vero nome.
A quel punto l'ira del ciclope aumentò e, furioso, invocò l'aiuto del padre Poseidone, il Dio del mare: << Padre fa che Ulisse soffra come io sto soffrendo e giunga in patria dopo infinite peripezie, senza navi e senza compagni. >>
E così fu. Ma nonostante varie peripezie ed (dis)avventure, Ulisse riuscì a tornare in patria.
Ancora oggi è possibile vedere le cime lanciate dai ciclopi, Polifemo e Bronte, a pochi metri di distanza dalla costa di Acitrezza: i famosi faraglioni dei Ciclopi.